Il calcio nasce e si sviluppa in Europa a partire dalla seconda rivoluzione industriale, ossia da fine '800, fino ai primi anni '90 del XX secolo, quando completa la sua maturazione e - complici l'enorme mobilità dei capitali e la globalizzazione - vede l'ingresso incontrollato di soggetti esterni in grado di mutare in pochi anni, in modo totalmente arbitrario, il destino sportivo di alcune realtà. Esempio tipico: il Chelsea di Abramovich.
Dal 2003 in poi potenzialmente anche il club più sfigato può diventare rilevante se arrivano i giusti investimenti.
Ma a noi non interessa quella fase. A noi interessa il periodo precedente, ossia quello che ha fissato le gerarchie e creato il cosiddetto "blasone".
Basta guardare la mappa allegata - spero riusciate a vederla - e sovrapporla con quella delle società calcistiche più importanti d'Europa per capire che il fattore determinante nel periodo d'oro è stata l'industria. Attenzione, industria in senso stretto. Dunque né terziario, né finanza, ma miniere, acciaierie, cantieri navali, tessile etc. Mi sono chiesto il perché di questo e penso di averlo trovato in un elemento semplice ma razionale: il calcio nasce come sport popolare e poi, in un secondo momento, conquista la classe media. Dunque attecchisce inizialmente in luoghi nei quali esistono vasti strati popolari. La working class britannica era a Manchester e a Liverpool, non a Londra, dominata dalla finanza e dagli apparati statali, città a vocazione impiegatizia, se si eccettuano forse i portuali. Questo è un fattore determinante perché fino almeno agli anni '40-'50 del '900 il mercato calcistico era estremamente chiuso, e non era raro che le rose fossero composte in gran parte da elementi locali. Mi colpì molto una frase dell'Avvocato Agnelli, il quale, ricordando la squadra di suo padre, disse che il consiglio direttivo della Juventus si divideva quando capitava di ingaggiare un non piemontese. Tutto ciò accadeva negli anni '30.
Dunque in un contesto nel quale il bacino da cui pescare non era il mondo - come oggi - ma la città o al massimo la regione in cui aveva sede il club, erano senza dubbio avvantaggiati i club che operavano in territori con una forte presenza operaia.
A primeggiare erano dunque le realtà che:
A) avevano accesso a un grande serbatoio di giocatori poiché si trovavano in aree a forte vocazione operaia,
B) operavano in un contesto fortemente industrializzato, laddove era disponibile capitale d'investimento in abbondanza e le regole dell'organizzazione industriale potevano essere applicate alla gestione sportiva.
I due requisiti si rafforzano a vicenda ed individuano delle aree precise, escludendone altre. Parigi, Berlino e Roma non sono città industriali, ma al massimo di terziario e amministrazione. E infatti nessuna di esse ha prodotto autonomamente un club "di blasone". Lo stesso discorso si potrebbe fare per Londra, la quale però, oltre ad avere un porto enorme e dunque un bacino di portuali da cui pescare, ospitava tanti club che lottavano tutti per lo stesso - grande, per carità - bacino d'utenza. Ciò ha consentito l'affermarsi di grandi formazioni, vedi l'Arsenal, ma di nessun egemone.
Per il resto, in Italia questi criteri individuano Milano, Torino e Genova; in Germania Monaco di Baviera e le città della Ruhr-Reno (Dortmund e le altre); in Olanda Amsterdam e Rotterdam; in Spagna Barcellona. Se le mettiamo insieme a Manchester, Liverpool, Birmingham, abbiamo la lista delle città calcistiche europee blasonate, che guardacaso sono quelle della mappa.
L'unico elemento apparentemente inspiegabile alla luce di questo modello è il successo del Real Madrid, squadra che sorge in una capitale non troppo dissimile da Parigi, Roma o Berlino, ossia città impiegatizia e non industrializzata.
Credo che il Real sia un unicum in quanto squadra del governo e del sistema. Forse è stato ciò che sarebbe potuta essere la Roma nel caso in cui in Italia fosse rimasta la monarchia e si fosse deciso di creare una realtà calcistica di prestigio. Probabilmente il progetto fascista era proprio quello e negli anni '30 la Roma, sebbene fosse appena nata, era una formazione estremamente temibile.
Dunque la Roma non vince perché nel periodo di incubazione del calcio, quello in cui si sono definite le gerarchie, non si trovava in una città industriale. Ciò le ha impedito di avere una storia gloriosa e di diventare un'istituzione più grande dei suoi giocatori. Ciò l'ha tenuta "al riparo" dall'organizzazione industriale e dai capitali presenti altrove. A partire dagli anni '80 le cose potevano cambiare, ma non sempre chi l'ha guidata è stato capace di comprendere dove andava il calcio, facendole recuparare posizioni.
Ovvio che servirebbe uno studio serio per consolidare - o scartare - questa teoria, ma intuitivamente sono portato a pensare che questi fattori abbiano giocato un ruolo decisivo.
Oggi è un'altra storia. Oggi le varie realtà sono molto più slegate dal tessuto urbano di riferimento rispetto al passato e la Roma ha investitori americani alla guida. Si puà cambiare e anzi io sono certo che con i Friedkin, appena si indovinerà l'organigramma tencico-dirigenziale, si faranno passi da gigante. Sono molto fiducioso.