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Afghanistan, l’addio degli italiani
di Adriano Sofri

HERAT - Come opera, e con quali pensieri e atteggiamenti, il contingente italiano, a rientro ormai iniziato — dovrebbe completarsi entro il prossimo anno — e che situazione lascerà, con quali prospettive. Siamo qui in quel modo peculiare che si è chiamato embedded, cioè pienamente ospiti della componente italiana della forza armata Isaf. La base di Herat ha oggi tremila italiani, e quasi duemila militari fra americani, spagnoli e di altre nazioni. La Regione a comando italiano aveva finora, oltre a numerosi avamposti minori, quattro basi maggiori: oltre a Herat, Farah, Shindand, Bala Boluk.

Farah è stata smobilitata e restituita agli afgani giovedì scorso, 31 ottobre. Bala Boluk lo sarà entro il 15 novembre. Erano presidiate ambedue dai bersaglieri del 6° Reggimento di Trapani, al comando del colonnello Mauro Sindoni, 46 anni — i graduati di ogni ordine sono oggi molto più giovani che in passato, meno marziali, direi, e più spiritosi. Con che stato d’animo attraversa questo passaggio di consegne? «Direi quasi che fatto, più o meno, l’Afghanistan, bisogna fare gli afgani. Probabilmente D’Azeglio lo ripeterebbe anche per noi italiani». Fra un trasloco compiuto e uno imminente, si dice «umanamente sollevato, e istituzionalmente soddisfatto del risultato. Eravamo un presidio per la prevenzione di attacchi e la libertà di movimento. Siamo progressivamente diventati una specie di scuola guida per militari e polizia afgani, e collaboratori dei loro organi di governo. A Farah c’erano 400 bersaglieri, e un certo numero di persone del Genio, delle comunicazioni eccetera. Ritornano in Italia e questa volta non saranno sostituiti. Non abbiamo avuto perdite, per fortuna, e questo è quello che importa di più a un comandante, né ne abbiamo procurate arbitrariamente». Proprio per quel proposito, dice, abbiamo spesso impiegato «una ridondanza di risorse». Come quasi tutti qui, ha più missioni alle spalle, tre in Kosovo. Ha avuto meno occasioni di rapporti con la popolazione che con colleghi afgani e autorità pubbliche. Dice che prima si è tentati di sentire la differenza, quel modo di intendere il tempo, soprattutto. Poi, quando ci si conosce meglio, si confrontano i problemi reciproci, e si scopre di assomigliarsi, e questo è il frutto più utile.

Chiusa anche Bala Boluk, che cosa farà? «Tornerò a comandare il reggimento a Trapani, per qualche mese ancora, poi credo che avremo la responsabilità dei Centri di Identificazione e di Espulsione». Ahi, dico, si troverà davanti magari qualcuno dei giovani afgani di cui ha apprezzato qui la curiosità e la voglia di progresso. Sospira, il colonnello: è così per ogni nuova generazione di migranti, lo fu per noi, lo è di nuovo. Quanto all’aria giovanile, è un effetto ottico, dice. «Da allievo il mio tenente mi sembrava anziano, e il mio colonnello decisamente vecchio. Quando sono diventato colonnello io ho trovato di essere piuttosto giovane».

L’età media dei soldati si avvicina ai trent’anni, perché hanno pressoché tutti un’anzianità di missioni, in Iraq, Libano, Kosovo. A tavola si scopre che quattro commensali hanno un figlio o una figlia di 10 anni, si ricostruisce una licenza di dieci anni fa. Il capitano dei carabinieri Marco Cervo, che in aereo legge Marco Nozza, ne ha uno di 13 e uno di 10, appassionato di calcio. Il tredicenne ama la musica, un metal molto heavy, dice, lo ha portato a sentire un concerto degli Slayer, ma già li trova troppo leggeri. Tra i graduati giovani molti hanno famiglia, e non esitano a dire frasi che in altre circostanze suonerebbero retoriche. Il caporalmaggiore Roberto Costa, per esempio, che mentre ci accompagna al buio della prima sera — la notte precipita di colpo, e in cambio offre uno stellato meraviglioso, e il campo è oscurato per sicurezza — dice che la sua bambina, 9 anni, protesta quando lui riparte, e lui le spiega «che cosa vuol dire qui dare una bottiglietta d’acqua a una bambina che non te l’ha chiesta», dice così, che non te l’ha chiesta, e immagino che voglia dire lo stupore grato.

Bene, il libro Cuore è sempre in agguato, allora torniamo al giorno fatto, e al nuovissimo argomento dei Predator, i droni di cui tanto si parla. Riceviamo una istruzione teorica e pratica impressionante sui Predator, che non proverò a riassumere nei suoi aspetti tecnici, per manifesta inferiorità. Dirò qualcosa sulla singolare, per le mie aspettative, disponibilità a lasciarci guardare con gli occhi e toccare con mani un complesso di umani e macchine dei più delicati. I Predator italiani sono disarmati, servono per la ricognizione. Servono moltissimo: i militari sul campo dicono che cambiano tutto, che è come avere davvero un angelo custode sulla testa. «Un occhio dal cielo», dicono i loro titolari, orgogliosi di una competenza per cui gli italiani sono arrivati prima di altri, e a volte sono ancora gli unici dopo gli americani, per esempio nella guida satellitare, oltre la guida a vista. Hanno ottenuto, i nostri ospiti, il record mondiale della persistenza in volo: 26 ore, 42 minuti e 55 secondi, alternando 4 equipaggi a terra. Non sono contenti che si chiamino aerei senza pilota: chi li guida dalla sua sedia è a tutti gli effetti un pilota, e sente la stessa pressione, la stessa responsabilità di uno seduto nel cockpit tradizionale. La differenza è nella quantità di informazioni e nella precisione corrispondente: scoprono attacchi in corso o preparati, collocazioni di ordigni nelle strade — il pericolo più incombente — svolgono compiti civili, come nell’appena inaugurata attività “Mare Nostrum” nel canale di Sicilia.

Nella campagna elettorale afgana — le elezioni di aprile, che decideranno anche della successione a Karzai, reduce da due mandati — i Predator potranno sorvegliare la regolarità e proteggere dagli attentati gli assembramenti ai seggi. Il programma si chiama Astore, il comandante della Forza aerea italiana è il colonnello Saverio Agresti, 49 anni che sembrano 30, laurea in scienze aeronautiche e in scienze politiche, già in Bosnia e Kosovo; al comando dei Predator è il capitano Sergio T., 30 anni che sembrano 25, la Mission monitor Mariangela ne ha 25 che sembrano 20, attorno a loro un equipaggio di donne e uomini tutti sui 25. Chiedo se un ragazzino non rischi di cavarsela meglio di un professionista con la cloche e i computer in una stanzetta, replicano che nella vita, e soprattutto in questo lavoro, conta molto anche l’esperienza: l’esperienza di cui parlano è l’anzianità dei loro venti o trent’anni. Della controversia su usi e abusi di droni armati pensano che il futuro renderà sempre più urgente il problema, e che occorrerà regolarne morale e legge. Che quando diventa possibile fare una cosa nuova e formidabile è difficile misurarne l’uso. Sottolineano che i loro Predator sono disarmati, e che armarli non è l’affare di una decisione, ma implica una trasformazione drastica dell’architettura dell’apparecchio. Che gli italiani di fronte al dubbio sull’effetto cosiddetto collaterale di un’azione non obbligata dalla legittima difesa e dal soccorso, rinunciano all’azione. E che il Predator è molto più preciso di qualunque altro mezzo per la determinazione di un obiettivo.

L’Italia ne ha 6, li ha impiegati dal 2005 in Iraq, dal 2007 qui, per un totale di quasi 12 mila ore di volo. Al primo modello, l’A, se ne è aggiunto un altro, B — la sua versione “armata” si chiama Reaper. Quello che noi vediamo all’opera è il modello A, ha un motore di 109 cavalli — «meno di un motorino» — è silenzioso, ha sensori ad alta definizione e vede nella notte meglio che di giorno, però soffre del maltempo e del vento. Ci atterra davanti e poi viene docile all’hangar dove i
manutentori lo rimettono al guinzaglio.

Ma ti sei fatto abbindolare dal drone? — direte. Un po’. È una meraviglia. Penso a Leonardo da Vinci, alla sua geniale mappa di Imola vista dall’alto — Leonardo disegnava aerei ma non era salito in alto a guardare Imola. Però non ho affatto dimenticato il resto, il giovane americano che ha appena raccontato di aver ammazzato 1800 persone dalla sua sedia di telepilota, e di averne abbastanza. Le cose hanno almeno due facce, due usi. Il soldato che si muove sul terreno e riceve in tempo reale sull’iPad immagini e didascalie su ogni passo suo e di chi gli tende un agguato, può trovarsi su quel terreno per almeno due ragioni. Chi detesta la guerra e auspica una polizia internazionale, misura tutto, le parole e il viso del colonnello Agresti, del capitano Sergio, della Mission Monitor Mariangela, su quel criterio.

La pista del Predator è, incredibilmente, la stessa su cui atterrano e decollano gli aerei di linea afgani. E bisogna stare attenti a metterci in mezzo un intervallo di qualche minuto almeno, se no i vortici degli aerei di linea inghiottono il drone, che è quasi un aliante, e pesa meno di un’utilitaria. Il comandante Agresti non fa preferenze fra i suoi aerei: il Predator, il caccia AM-X, e il C 130 che ha un’aria antidiluviana con le sue quattro eliche nere ma fa il suo servizio di facchinaggio a meraviglia. «Ieri siamo andati a caricare i nostri a Farah, non c’è una vera pista, quando sono atterrati avevo voglia di battergli le mani».
È tutto un po’ strano. Ci sono cose solenni (il campo è pieno di memorie di caduti) e cose allegre. I lavoratori afgani hanno un’aria rilassata. I militari, uomini e donne, vanno di qua e di là, soli o a coppie o a gruppi, a fare qualcosa che sanno loro. È come un paese italiano di 3mila abitanti, tutti capi famiglia. Il cielo stellato sopra di noi.
Ultima modifica di il_noumeno il giovedì 14 novembre 2013, 11:47, modificato 2 volte in totale.


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Re: Giornalismo: reportage & inchieste

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Il mondo visto da dietro una porta

(P.Cardone/T.Rodano/D.Milosa/A.Giambartolomei)
Il Fatto Quotidiano

Si sopporta tutto, le violenze, il razzismo. Oppure si condanna in blocco, con sufficienza e snobismo. Tifosi o detrattori non conoscono mezze misure. Eppure il calcio è proprio un concentrato di contraddizioni. Questa è la sua grandezza e il suo male. E la curva è il simbolo, del pallone e di tutte le nostre passioni. Un luogo di cui tutti parliamo, ma che pochi conoscono davvero. Ecco allora il signor Rossi superare i tornelli per capire davvero cosa succede ai margini del campo. Perché il vero spettacolo – soprattutto in questi anni di crisi del gioco – è soprattutto laggiù: alle spalle della porta.
LAZIO, LA POLITICA E’ SEMPRE PRESENTE
“Il tramonto è rosso, l’Alba è dorata”. Lo striscione compare nelle prime file della Curva Nord all’intervallo. Ci sono i nomi di Yorgos e Manolis, i due “camerati” del partito nazista greco uccisi ad Atene il primo novembre. Hai voglia a dire che il settore storico degli ultrà della Lazio è cambiato e la “politica” è finita fuori dalla gradinata. Non è bastata la dissoluzione degli Irriducibili, il gruppo ultrà storicamente e orgogliosamente fascista e razzista, sciolto lo scorso anno. Gli stessi Irriducibili che nel 1992 accolsero l’olandese Aaron Winter, appena acquistato dall’Ajax, tappezzando il centro sportivo della Lazio di scritte che gli rinfacciavano l’inaccettabile provocazione di essere al contempo “negro” ed “ebreo”. Gli stessi Irriducibili del capo ultrà Fabrizio Piscitelli, in arte Diabolik, arrestato da latitante per traffico di droga, mentre guardava una partita europea della sua Lazio. Anche senza di loro lo stadio e l’area che lo circonda restano una zona franca. Bancarelle e venditori abusivi sono una fauna storica, intoccabile. I bagarini sono diminuiti, ma non li ha eliminati nemmeno l’introduzione del biglietto nominale. Anche perché il controllo dei documenti di chi si avvicina ai tornelli è una barzelletta e alla fine, con un po’ di lavoro di persuasione sugli steward, può entrare praticamente chiunque, in qualsiasi settore. Certo, la curva non è solo questo. Sono anche migliaia di persone che riempiono la gradinata e la colorano con orgoglio fino al fischio finale, quando parte la contestazione. Un settore intero che tira fuori le sciarpe e canta l’inno della Lazio nel momento peggiore, con i cugini primi in classifica e la propria squadra che affonda contro il modesto Genoa. La Curva Nord non sono solo le persone che tirano su col naso negli angoli nascosti delle latrine dell’Olimpico (e non certo per goderne della fragranza). È anche una gradinata piena di ragazzi e bambini piccoli. Una avrà al massimo due anni e un ciuffetto di capelli tenuti su da un minuscolo elastico blu. Osserva la curva dalle spalle del papà. Le toccherà ascoltare, in meno di due ore, gli ululati al genoano di colore Cofie e soprattutto all’ex laziale Matuzalem (che non è “negro”, ma è colpevole d’“infamia”). Le toccherà assistere a boschi di braccia tese, mentre parte un canto nostalgico: “Avanti ragazzi di Buda, avanti ragazzi di Pest”. Le toccherà sentire un coro creativo che tiene insieme Mario Balotelli e “i suoi fratelli”, che “non giocano a pallone”, ma “sudano in un campo di cotone”. E, poiché alla fantasia dell’ultras non c’è limite, ascolterà anche una dedica speciale al presidente della Lazio: “Mi diverto solo se muore Lotito. Dove muore non m’importa, lo vogliamo a Prima Porta”. Una minoranza, si dirà. La solita minoranza.
JUVENTUS IL MURO DI TORINO
Basta una parete di plexiglass a dividere due maniere di vivere lo Juventus Stadium. È mercoledì sera, si gioca la partita tra la squadra torinese e il Catania, l’ultima in casa prima dell’incontro col Napoli. La parete di plexiglass divide due stili accomunati solo dalla fede nei colori bianconeri. Da una parte, nella tribuna ovest, sembra proprio lo stadio “con le vetrine e i negozietti, solo famiglie e chierichetti”, come cantano i tifosi del Torino. I seggiolini di plastica sono ancora intonsi, senza una scritta. Le pareti sono pulite, le file ordinate. Stanno tutti composti a godersi la goleada juventina. Ci si alza in piedi solo nei momenti del gol sennò arrivano subito gli steward che tutelano il diritto di chi ha pagato quaranta euro (come minimo) per vedere l’incontro. Gli addetti alla sicurezza intervengono anche quando qualcuno si accende una sigaretta: bastano pochi tiri, una nuvoletta di fumo che si leva, e lo steward con la pettorina gialla invita a spegnere o a uscire. Invece dall’altra parte della barriera di plexiglass che divide la tribuna ovest dalla curva sud, c’è un gruppo di ragazzi in piedi che fuma. Per loro valgono regole diverse. Da quella parte è tutto un levarsi di nuvolette di fumo, di gente in piedi accalcata contro il parapetto, a cavalcioni della balaustra. È la curva sud, il regno degli ultras juventini, con gruppi politicamente di destra. Sopra, al secondo livello, è il “territorio” dei Drughi, gruppo tornato allo stadio nel 2005 dopo quasi dieci anni di assenza. Sotto invece, proprio dietro la porta, sono accalcati i rivali dei Drughi, gli ultras di Tradizione insieme a quelli Antichi valori, Fighte rs e Curva Sud Scirea. Cinque ragazzi in maglietta nera stanno in bilico su un muretto per coordinare i cori, controllati a distanza da un numero variabile di addetti alla sicurezza, tra i venti e i trenta. Ma in questa serata è tutto tranquillo e i cori sono contenuti. Suona strano se si pensa che questi gruppi, i più forti della curva, all’inizio di ottobre si erano uniti alla protesta degli ultras di Milan e Inter contro le sanzioni previste per i “cori espressivi di discriminazione territoriale”. A un ultras basta una frase per spiegare il motivo di questo comportamento: “La prossima partita in casa è contro il Napoli”. E quindi? “Se facciamo questi cori oggi rischiamo che la curva venga chiusa”. Ah, ecco. Dopo i canti contro i napoletani del 20 ottobre ne sono stati fatti altri domenica scorsa contro il Genoa, società gemellata a quella partenopea. Il giorno dopo il giudice sportivo ha deciso di sanzionare la società bianconera per canti come “Lavali con il fuoco, Vesuvio lavali con il fuoco”, interrotti solo dopo l’annuncio antiviolenza dello stadio: era la prima sanzione e quindi la pena minima, la chiusura della curva sud per una partita, è stata sospesa a condizione che i cori non vengano ripetuti. Mercoledì quindi nessun riferimento alla lava del Vesuvio, né a quella dell’Etna contro gli avversari del Catania. Per comprare un biglietto non c’è problema: i bagarini vendono la curva per cifre tra i 150 e i 200 euro.
ATALANTA, BOTTE E BENEFICENZA
Alla partita mancano cinque ore. Le strade intorno allo stadio Azzurri d’Italia sono deserte. Eppure Anna è già lì, immobile davanti allo sportello-accrediti. Ombrello, maglia e cuore neroblu. Non alta, non magra, 30 anni o poco più, occhiali “a girella”. Parla da sola: “Forza Dea, forza Dea”. Non è training autogeno. A duecento metri, seduto ai tavolini del barstadio, Luca legge la Gazzetta dello Sport. Pingue, sui vent’anni, guarda in cagnesco i passanti e ripete: “Col cuore, col cuore”. Sulle pareti foto e ricordi sbiaditi dell’Atalanta che fu. Anna e Luca sono nomi di fantasia, ma loro esistono davvero e accolgono chiunque capiti nella città orobica per Atalanta- Inter, anticipo della decima giornata di Serie A. É un derby: 50 chilometri dividono le città, anni luce le due tifoserie. La curva di casa, poi, è considerata una delle più calde d’Italia (93 persone sotto inchiesta per associazione a delinquere) e rappresenta una voce molto ascoltata negli ambienti ultras. Il cielo è plumbeo. All’ingresso della Curva Pisani un cartello recita: “Vietato introdurre ombrelli e passeggini”. Per chi va in tribuna coperta il problema non si pone. Per i curvaioli neanche: la pioggia fa parte del rito. Ovunque scritte inneggianti la fede ultras, l’odio per la Digos, “Acab” in tutte le salse. Calma apparente. Poi all’imbocco della strada che conduce alla tribuna fa capolino un bus scuro. Anna lo vede e urla: “Ecco i nostri campioni, forza Dea!”. Il pullman, però, è quello dell’Inter. Anna, repentina, muta l’incitamento in invettiva: “Merdeee merdeee!”. Neanche dieci minuti ed è il turno del bus orobico. Questa volta Anna non sbaglia. Il fischio d’inizio si avvicina, dei sostenitori dell’Inter nessuna traccia: il loro arrivo a Bergamo è stato salutato da una sassaiola al casello. Vetri infranti, nessun ferito. Una volta allo stadio, i fans della Beneamata cercano di raggiungere i tifosi di casa per vendicarsi. Miccia spenta dai celerini prima di far deflagrare la violenza. Che c’è stata, ma lontano dall’ex Comunale. Dove, invece, si pensa ad altro. “Qui che ha?”. “Sigarette, fiammiferi e chiavi di casa”. “Ok, può andare”. Dopo i tornelli, la perquisizione in curva è una pratica soft: solo la certezza che non venga introdotto “materiale atto a offendere”. Sotto gli spalti della Pisani è tutto un lavorìo di schiene piegate: la preparazione degli striscioni deve essere certosina. Alla destra del chioschetto delle bibite (niente alcolici), due ragazze distribuiscono la fanzine. In cambio di “un contributo per ciò che facciamo”. Cosa fanno? Beneficenza e iniziative varie. L’ultima è aiutare il piccolo Nicola a rivendicare il diritto alla cura con il metodo Stamina. Di sassi e risse non parla nessuno. Eppure ci sono, come le buone azioni. In men che non si dica la curva è piena zeppa. Sul campo le squadre hanno quasi ultimato il riscaldamento quando una trentina di ultras, con movimenti provati e riprovati, adagia alla base della curva un drappo lungo oltre cento metri. Conto alla rovescia, primi cori: “In-te-ris-ta ca-ne bas-tar-do” ripe – tuto a squarciagola. I 22 entrano in campo, gli altoparlanti sparano turbofolk. Tutti in piedi. Venti secondi e la curva non c’è più: al suo posto un immenso telo nerazzurro ricopre l’intero settore. Sotto è festa. Salti, mani al cielo, urla, fumogeni. L’odore di spinello avvolge tutto. Una ragazza al fidanzato: “Piove, mi bagno. Andiamo via?”. E lui, come se non ci fosse domani: “In-te-ris-ta ca-ne bas-tar-do”. Evidentemente era un no. Nell’intervallo è corsa al bar, alle canne e ai bagni. Quello che la vulgata definisce come il luogo più pericoloso dello stadio, a Bergamo è una semplice latrina: serve a ciò che deve servire, altro che ricettacolo di criminali e loschi traffici. Dopo quindici minuti la festa riprende. L’Inter attacca, la curva orobica pure. Con uno striscione non oxfordiano: “Discri – minarvi deve essere la normalità. Interista figlio bastardo di ogni città”. Il riferimento è alla vicenda delle curve chiuse (e poi riaperte) per gli insulti ai napoletani. La chiamano “discrimina – zione territoriale”, ma a Bergamo (roccaforte leghista) è più rivalità calcistica che altro. Certo, nella fauna assortita della curva i “terun” e i “neghèr” urlati contro gli avversari non si contano. Ma il senso è più quello del “pirla” alla milanese e del “trimone” alla barese: un insulto, quasi un intercalare, dettato dal timore dell’avversario. Il razzismo becero e politicizzato è un’altra cosa. L’arbitro fischia la fine: uno pari. E dopo novantacinque minuti di salti, cori e fumo passivo, si ha la sensazione di aver partecipato ad una festa, non alla sagra dell’odio.
A FASANO, E’ DERBY DI PAESE
Non ci sono tornelli, non ci sono controlli, non ci sono curve e non c’è neanche il campo con l’erbetta. Lo stadio è tutto esaurito: 700 persone, tifosi di casa e ospiti (in larga maggioranza) tutti insieme appassionatamente nell’unica tribuna dell’impianto. In scena il derby di Prima Categoria pugliese tra Pezze di Greco e Fasano. La provincia è quella di Brindisi, Pezze di Greco è la frazione di Fasano. Non era mai accaduto prima che i due club si affrontassero in campionato. Gli ospiti, dopo anni in Serie C, sono sprofondati negli inferi del dilettantismo. La passione dei tifosi, però, è rimasta intatta. La trasferta, per loro, è una gita fuori porta: appena cinque i chilometri da percorrere con ogni mezzo possibile, biciclette comprese. Calcio pane e salame, insomma. Lontano dai riflettori, lontano dalla ribalta. Ma vicino, molto vicino alla gente. Perché a questi livelli non ci sono le tv e se si vuol seguire la propria squadra la soluzione è solo una: andare allo stadio. E i tifosi ci sono andati in massa. Servizio d’ordine minimo, di pericolo incidenti neanche l’ombra. Eppure c’è qualcuno che non dimenticherà l’esperienza: l’arbitro, forse non abituato a fischiare di fronte a tanta gente, va nel pallone, espelle tre giocatori del Fasano e per i frazionali la vittoria contro la città è una storia da raccontare ai nipotini. Capita, però, che ai tifosi ospiti la sconfitta non vada giù. La giacchetta nera diventa il bersaglio numero uno. Spogliatoio circondato: il signor Salanitro di Bari lascerà lo stadio all’imbrunire, senza conseguenze, ma scortato dalle forze dell’ordine e dopo due ore dal triplice fischio. Tra goliardia e rabbia di campanile, succede anche questo nel calcio dell’ultraperiferia.


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Re: Giornalismo: reportage & inchieste

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il_noumeno ha scritto:
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Si sopporta tutto, le violenze, il razzismo. Oppure si condanna in blocco, con sufficienza e snobismo. Tifosi o detrattori non conoscono mezze misure. Eppure il calcio è proprio un concentrato di contraddizioni. Questa è la sua grandezza e il suo male. E la curva è il simbolo, del pallone e di tutte le nostre passioni. Un luogo di cui tutti parliamo, ma che pochi conoscono davvero. Ecco allora il signor Rossi superare i tornelli per capire davvero cosa succede ai margini del campo. Perché il vero spettacolo – soprattutto in questi anni di crisi del gioco – è soprattutto laggiù: alle spalle della porta.
LAZIO, LA POLITICA E’ SEMPRE PRESENTE
“Il tramonto è rosso, l’Alba è dorata”. Lo striscione compare nelle prime file della Curva Nord all’intervallo. Ci sono i nomi di Yorgos e Manolis, i due “camerati” del partito nazista greco uccisi ad Atene il primo novembre. Hai voglia a dire che il settore storico degli ultrà della Lazio è cambiato e la “politica” è finita fuori dalla gradinata. Non è bastata la dissoluzione degli Irriducibili, il gruppo ultrà storicamente e orgogliosamente fascista e razzista, sciolto lo scorso anno. Gli stessi Irriducibili che nel 1992 accolsero l’olandese Aaron Winter, appena acquistato dall’Ajax, tappezzando il centro sportivo della Lazio di scritte che gli rinfacciavano l’inaccettabile provocazione di essere al contempo “negro” ed “ebreo”. Gli stessi Irriducibili del capo ultrà Fabrizio Piscitelli, in arte Diabolik, arrestato da latitante per traffico di droga, mentre guardava una partita europea della sua Lazio. Anche senza di loro lo stadio e l’area che lo circonda restano una zona franca. Bancarelle e venditori abusivi sono una fauna storica, intoccabile. I bagarini sono diminuiti, ma non li ha eliminati nemmeno l’introduzione del biglietto nominale. Anche perché il controllo dei documenti di chi si avvicina ai tornelli è una barzelletta e alla fine, con un po’ di lavoro di persuasione sugli steward, può entrare praticamente chiunque, in qualsiasi settore. Certo, la curva non è solo questo. Sono anche migliaia di persone che riempiono la gradinata e la colorano con orgoglio fino al fischio finale, quando parte la contestazione. Un settore intero che tira fuori le sciarpe e canta l’inno della Lazio nel momento peggiore, con i cugini primi in classifica e la propria squadra che affonda contro il modesto Genoa. La Curva Nord non sono solo le persone che tirano su col naso negli angoli nascosti delle latrine dell’Olimpico (e non certo per goderne della fragranza). È anche una gradinata piena di ragazzi e bambini piccoli. Una avrà al massimo due anni e un ciuffetto di capelli tenuti su da un minuscolo elastico blu. Osserva la curva dalle spalle del papà. Le toccherà ascoltare, in meno di due ore, gli ululati al genoano di colore Cofie e soprattutto all’ex laziale Matuzalem (che non è “negro”, ma è colpevole d’“infamia”). Le toccherà assistere a boschi di braccia tese, mentre parte un canto nostalgico: “Avanti ragazzi di Buda, avanti ragazzi di Pest”. Le toccherà sentire un coro creativo che tiene insieme Mario Balotelli e “i suoi fratelli”, che “non giocano a pallone”, ma “sudano in un campo di cotone”. E, poiché alla fantasia dell’ultras non c’è limite, ascolterà anche una dedica speciale al presidente della Lazio: “Mi diverto solo se muore Lotito. Dove muore non m’importa, lo vogliamo a Prima Porta”. Una minoranza, si dirà. La solita minoranza.
JUVENTUS IL MURO DI TORINO
Basta una parete di plexiglass a dividere due maniere di vivere lo Juventus Stadium. È mercoledì sera, si gioca la partita tra la squadra torinese e il Catania, l’ultima in casa prima dell’incontro col Napoli. La parete di plexiglass divide due stili accomunati solo dalla fede nei colori bianconeri. Da una parte, nella tribuna ovest, sembra proprio lo stadio “con le vetrine e i negozietti, solo famiglie e chierichetti”, come cantano i tifosi del Torino. I seggiolini di plastica sono ancora intonsi, senza una scritta. Le pareti sono pulite, le file ordinate. Stanno tutti composti a godersi la goleada juventina. Ci si alza in piedi solo nei momenti del gol sennò arrivano subito gli steward che tutelano il diritto di chi ha pagato quaranta euro (come minimo) per vedere l’incontro. Gli addetti alla sicurezza intervengono anche quando qualcuno si accende una sigaretta: bastano pochi tiri, una nuvoletta di fumo che si leva, e lo steward con la pettorina gialla invita a spegnere o a uscire. Invece dall’altra parte della barriera di plexiglass che divide la tribuna ovest dalla curva sud, c’è un gruppo di ragazzi in piedi che fuma. Per loro valgono regole diverse. Da quella parte è tutto un levarsi di nuvolette di fumo, di gente in piedi accalcata contro il parapetto, a cavalcioni della balaustra. È la curva sud, il regno degli ultras juventini, con gruppi politicamente di destra. Sopra, al secondo livello, è il “territorio” dei Drughi, gruppo tornato allo stadio nel 2005 dopo quasi dieci anni di assenza. Sotto invece, proprio dietro la porta, sono accalcati i rivali dei Drughi, gli ultras di Tradizione insieme a quelli Antichi valori, Fighte rs e Curva Sud Scirea. Cinque ragazzi in maglietta nera stanno in bilico su un muretto per coordinare i cori, controllati a distanza da un numero variabile di addetti alla sicurezza, tra i venti e i trenta. Ma in questa serata è tutto tranquillo e i cori sono contenuti. Suona strano se si pensa che questi gruppi, i più forti della curva, all’inizio di ottobre si erano uniti alla protesta degli ultras di Milan e Inter contro le sanzioni previste per i “cori espressivi di discriminazione territoriale”. A un ultras basta una frase per spiegare il motivo di questo comportamento: “La prossima partita in casa è contro il Napoli”. E quindi? “Se facciamo questi cori oggi rischiamo che la curva venga chiusa”. Ah, ecco. Dopo i canti contro i napoletani del 20 ottobre ne sono stati fatti altri domenica scorsa contro il Genoa, società gemellata a quella partenopea. Il giorno dopo il giudice sportivo ha deciso di sanzionare la società bianconera per canti come “Lavali con il fuoco, Vesuvio lavali con il fuoco”, interrotti solo dopo l’annuncio antiviolenza dello stadio: era la prima sanzione e quindi la pena minima, la chiusura della curva sud per una partita, è stata sospesa a condizione che i cori non vengano ripetuti. Mercoledì quindi nessun riferimento alla lava del Vesuvio, né a quella dell’Etna contro gli avversari del Catania. Per comprare un biglietto non c’è problema: i bagarini vendono la curva per cifre tra i 150 e i 200 euro.
ATALANTA, BOTTE E BENEFICENZA
Alla partita mancano cinque ore. Le strade intorno allo stadio Azzurri d’Italia sono deserte. Eppure Anna è già lì, immobile davanti allo sportello-accrediti. Ombrello, maglia e cuore neroblu. Non alta, non magra, 30 anni o poco più, occhiali “a girella”. Parla da sola: “Forza Dea, forza Dea”. Non è training autogeno. A duecento metri, seduto ai tavolini del barstadio, Luca legge la Gazzetta dello Sport. Pingue, sui vent’anni, guarda in cagnesco i passanti e ripete: “Col cuore, col cuore”. Sulle pareti foto e ricordi sbiaditi dell’Atalanta che fu. Anna e Luca sono nomi di fantasia, ma loro esistono davvero e accolgono chiunque capiti nella città orobica per Atalanta- Inter, anticipo della decima giornata di Serie A. É un derby: 50 chilometri dividono le città, anni luce le due tifoserie. La curva di casa, poi, è considerata una delle più calde d’Italia (93 persone sotto inchiesta per associazione a delinquere) e rappresenta una voce molto ascoltata negli ambienti ultras. Il cielo è plumbeo. All’ingresso della Curva Pisani un cartello recita: “Vietato introdurre ombrelli e passeggini”. Per chi va in tribuna coperta il problema non si pone. Per i curvaioli neanche: la pioggia fa parte del rito. Ovunque scritte inneggianti la fede ultras, l’odio per la Digos, “Acab” in tutte le salse. Calma apparente. Poi all’imbocco della strada che conduce alla tribuna fa capolino un bus scuro. Anna lo vede e urla: “Ecco i nostri campioni, forza Dea!”. Il pullman, però, è quello dell’Inter. Anna, repentina, muta l’incitamento in invettiva: “Merdeee merdeee!”. Neanche dieci minuti ed è il turno del bus orobico. Questa volta Anna non sbaglia. Il fischio d’inizio si avvicina, dei sostenitori dell’Inter nessuna traccia: il loro arrivo a Bergamo è stato salutato da una sassaiola al casello. Vetri infranti, nessun ferito. Una volta allo stadio, i fans della Beneamata cercano di raggiungere i tifosi di casa per vendicarsi. Miccia spenta dai celerini prima di far deflagrare la violenza. Che c’è stata, ma lontano dall’ex Comunale. Dove, invece, si pensa ad altro. “Qui che ha?”. “Sigarette, fiammiferi e chiavi di casa”. “Ok, può andare”. Dopo i tornelli, la perquisizione in curva è una pratica soft: solo la certezza che non venga introdotto “materiale atto a offendere”. Sotto gli spalti della Pisani è tutto un lavorìo di schiene piegate: la preparazione degli striscioni deve essere certosina. Alla destra del chioschetto delle bibite (niente alcolici), due ragazze distribuiscono la fanzine. In cambio di “un contributo per ciò che facciamo”. Cosa fanno? Beneficenza e iniziative varie. L’ultima è aiutare il piccolo Nicola a rivendicare il diritto alla cura con il metodo Stamina. Di sassi e risse non parla nessuno. Eppure ci sono, come le buone azioni. In men che non si dica la curva è piena zeppa. Sul campo le squadre hanno quasi ultimato il riscaldamento quando una trentina di ultras, con movimenti provati e riprovati, adagia alla base della curva un drappo lungo oltre cento metri. Conto alla rovescia, primi cori: “In-te-ris-ta ca-ne bas-tar-do” ripe – tuto a squarciagola. I 22 entrano in campo, gli altoparlanti sparano turbofolk. Tutti in piedi. Venti secondi e la curva non c’è più: al suo posto un immenso telo nerazzurro ricopre l’intero settore. Sotto è festa. Salti, mani al cielo, urla, fumogeni. L’odore di spinello avvolge tutto. Una ragazza al fidanzato: “Piove, mi bagno. Andiamo via?”. E lui, come se non ci fosse domani: “In-te-ris-ta ca-ne bas-tar-do”. Evidentemente era un no. Nell’intervallo è corsa al bar, alle canne e ai bagni. Quello che la vulgata definisce come il luogo più pericoloso dello stadio, a Bergamo è una semplice latrina: serve a ciò che deve servire, altro che ricettacolo di criminali e loschi traffici. Dopo quindici minuti la festa riprende. L’Inter attacca, la curva orobica pure. Con uno striscione non oxfordiano: “Discri – minarvi deve essere la normalità. Interista figlio bastardo di ogni città”. Il riferimento è alla vicenda delle curve chiuse (e poi riaperte) per gli insulti ai napoletani. La chiamano “discrimina – zione territoriale”, ma a Bergamo (roccaforte leghista) è più rivalità calcistica che altro. Certo, nella fauna assortita della curva i “terun” e i “neghèr” urlati contro gli avversari non si contano. Ma il senso è più quello del “pirla” alla milanese e del “trimone” alla barese: un insulto, quasi un intercalare, dettato dal timore dell’avversario. Il razzismo becero e politicizzato è un’altra cosa. L’arbitro fischia la fine: uno pari. E dopo novantacinque minuti di salti, cori e fumo passivo, si ha la sensazione di aver partecipato ad una festa, non alla sagra dell’odio.
A FASANO, E’ DERBY DI PAESE
Non ci sono tornelli, non ci sono controlli, non ci sono curve e non c’è neanche il campo con l’erbetta. Lo stadio è tutto esaurito: 700 persone, tifosi di casa e ospiti (in larga maggioranza) tutti insieme appassionatamente nell’unica tribuna dell’impianto. In scena il derby di Prima Categoria pugliese tra Pezze di Greco e Fasano. La provincia è quella di Brindisi, Pezze di Greco è la frazione di Fasano. Non era mai accaduto prima che i due club si affrontassero in campionato. Gli ospiti, dopo anni in Serie C, sono sprofondati negli inferi del dilettantismo. La passione dei tifosi, però, è rimasta intatta. La trasferta, per loro, è una gita fuori porta: appena cinque i chilometri da percorrere con ogni mezzo possibile, biciclette comprese. Calcio pane e salame, insomma. Lontano dai riflettori, lontano dalla ribalta. Ma vicino, molto vicino alla gente. Perché a questi livelli non ci sono le tv e se si vuol seguire la propria squadra la soluzione è solo una: andare allo stadio. E i tifosi ci sono andati in massa. Servizio d’ordine minimo, di pericolo incidenti neanche l’ombra. Eppure c’è qualcuno che non dimenticherà l’esperienza: l’arbitro, forse non abituato a fischiare di fronte a tanta gente, va nel pallone, espelle tre giocatori del Fasano e per i frazionali la vittoria contro la città è una storia da raccontare ai nipotini. Capita, però, che ai tifosi ospiti la sconfitta non vada giù. La giacchetta nera diventa il bersaglio numero uno. Spogliatoio circondato: il signor Salanitro di Bari lascerà lo stadio all’imbrunire, senza conseguenze, ma scortato dalle forze dell’ordine e dopo due ore dal triplice fischio. Tra goliardia e rabbia di campanile, succede anche questo nel calcio dell’ultraperiferia.

de na superficialita' assurda Ciro....come tanti altri sul tema....
purtroppo bisogna viverle certe cose per conoscerle...e chi fa questi servizi non le conosce, io quando ero Ultras...o forse lo si 'e per tutta la vita magari in maniera diversa in altri contesti, mai mi sarei sognato di spiegargli certe dinamiche oggi e' piu facile avvicinarsi all'anello esterno di tutto un mondo che spesso e' fuorviante.... ;)


A chi infama butta 'N OCCHIO
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Re: Giornalismo: reportage & inchieste

Messaggio da il_noumeno »

io l'ho solo postato, non ho dato giudizi di merito.


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R: Giornalismo: reportage & inchieste

Messaggio da cerbero »

Fatto io ciro...su quello che conosco;)


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Re: Giornalismo: reportag,approfondimenti & inchieste

Messaggio da il_noumeno »

Vi segnalo il podcast di questa trasmissione curata da Minoli su Radio24.
Trattasi di approfondimenti su alcune "storie italiane", nel classico stile del suo conduttore (da Mixer a La storia siamo noi):

http://www.radio24.ilsole24ore.com/prog ... /index.php


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Re: Giornalismo: reportag,approfondimenti & inchieste

Messaggio da johmilton »

il_noumeno ha scritto:Vi segnalo il podcast di questa trasmissione curata da Minoli su Radio24.
Trattasi di approfondimenti su alcune "storie italiane", nel classico stile del suo conduttore (da Mixer a La storia siamo noi):

http://www.radio24.ilsole24ore.com/prog ... /index.php
Perdonami se rovino sto topic, ma come sento parlare di Minoli, mi ritorna sempre in mente Guzzanti...

[youtube][/youtube]


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Re: Giornalismo: reportag,approfondimenti & inchieste

Messaggio da il_noumeno »

johmilton ha scritto: Perdonami se rovino sto topic, ma come sento parlare di Minoli, mi ritorna sempre in mente Guzzanti...

[youtube][/youtube]
figurati, così lo migliori.
Peraltro è in programmazione su Rai5 un bellissimo documentario sulla nascita della Tv delle ragazze, al genesi del fenomeno cult rappresentato da Avanzi, Tunnel, etc, che vi consiglio

sapevate per esempio che i Nirvana nella loro famosa apparizione a Tunnel registrarono due pezzi, ma che i geni della Rai hanno cancellato la seconda registrazione?




Tornando al giornalismo, vi consiglio di dare un'occhiata a questo:

http://www.internazionale.it/live-blog/ ... ne-haiyan/

e anche a questo "portfolio" (anche se si tratta solo di ritratti):

http://www.internazionale.it/portfolio/ ... r-wessing/


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Re: Giornalismo: reportag,approfondimenti & inchieste

Messaggio da johmilton »

il_noumeno ha scritto: figurati, così lo migliori.
Peraltro è in programmazione su Rai5 un bellissimo documentario sulla nascita della Tv delle ragazze, al genesi del fenomeno cult rappresentato da Avanzi, Tunnel, etc, che vi consiglio

sapevate per esempio che i Nirvana nella loro famosa apparizione a Tunnel registrarono due pezzi, ma che i geni della Rai hanno cancellato la seconda registrazione?




Tornando al giornalismo, vi consiglio di dare un'occhiata a questo:

http://www.internazionale.it/live-blog/ ... ne-haiyan/

e anche a questo "portfolio" (anche se si tratta solo di ritratti):

http://www.internazionale.it/portfolio/ ... r-wessing/
Mortacci loro!

cmq per ricordare:
[youtube][/youtube]

Quella sì che era televisione sperimentale, intelligente, colta e pungente.


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Re: Giornalismo: reportage, approfondimenti & inchieste

Messaggio da il_noumeno »

comunque visto che non lo sapevate, sapevatelo su:

[youtube][/youtube]


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Re: Giornalismo: reportage, approfondimenti & inchieste

Messaggio da RomaTiAmo »

il_noumeno ha scritto:comunque visto che non lo sapevate, sapevatelo su:

[youtube][/youtube]


quanto mi faceva ridere Rieductional Channel :lol:


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Re: Giornalismo: reportage, approfondimenti & inchieste

Messaggio da Freedom »

il_noumeno ha scritto:comunque visto che non lo sapevate, sapevatelo su:

[youtube][/youtube]
fantastico :lol:


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Re: Giornalismo: reportage, approfondimenti & inchieste

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Re: Giornalismo: reportage, approfondimenti & inchieste

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Re: Giornalismo: reportage, approfondimenti & inchieste

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